top of page

Quando accettare è un po’ come piantare aghi

“Voglio accettarmi!”

Quante volte ho sentito vibrare questa frase in terapia? L’ho sentita pronunciare a voce bassa, con pianto, avvolta da tristezza, da frustrazione da urgenza, da una celata necessità che mi ha spesso riportata ad un senso del dovere, ad un dovere farlo “per forza” e questo imperativo categorico altro non fa che metterci spalle al muro e generare stati di ansia o frustrazione ogni volta che non riesco ad ottenere ciò che era mio dovere raggiungere.

La parola “accettazione” non è tra le mie parole preferite, la sento troppo piena e a volte diventa una trappola se non conosco bene che cosa io posso o non voglio accettare, se non riconosco i miei bisogni e non metto e non costruisco confini saldi tra me e tutto quello che c’è fuori.

Accettare non ha nulla a che fare con la passività, con l’allargare le braccia e prendere o fare entrare di tutto. Accettare non è “sono fatta così, non ci posso fare niente”, non è indossare un abito scomodissimo e consolarsi o incoraggiarsi sia solo per poche ore. Per me neanche il dolore si accetta, quello si attraversa e senza neanche troppa retorica.

E poi ci sono cose nella vita che è difficile accettare. Possiamo concedercelo questo, oppure dobbiamo portare avanti questo senso del dovere zen a tutti i costi?

Accettazione a volte è la scusa più allettante che abbiamo per sfuggire dall’assumerci una responsabilità e rimanere così in una zona di comfort e non rischiare la paura del cambiamento.

“Mi fa schifo questo o quest’altro di me, odio la mia fragilità, non mi piace la mia rabbia, non mi piace il mio corpo, le mie gambe, le mie braccia, il mio seno. Non mi piaccio, ma voglio imparare ad accettarmi”.

Suona un poco in conflitto, no?

Amarsi significa “prendersi cura” e

qualsiasi percorso di cambiamento che sarà mosso da un sentimento di rifiuto verso parti di noi più fragili o di aspetti imperfetti del nostro corpo, sarà destinato a fallire. Per accettarsi e amarsi è necessario sentire di potere essere imperfette. Approdare a quell’isola di pace che mi permette di accarezzare fragilità e imperfezioni senza l’ossessione di distruggere e eliminare, ma con desiderio di muoversi attivamente verso la cura e l’amore di noi stesse nella nostra interezza. Solo così, qualsiasi percorso di cambiamento sia esso interno o esterno, può trasformarsi in un dono:

La psicoterapia, la dieta, l’allenamento che trovano spinta motivazionale da occhi giudicanti e crudeli alimenteranno mostri.

Per accettare una mia parte ombra, scomoda e abietta così come la mia cellulite, i miei chili in più, le mie smagliature, i miei capelli ricci o le mie mani troppo grandi, io devo poterle amare.

L’accettazione per forza non è amarsi.

Amarsi è essere felici di ciò che si è.

Spesso l’immagine che abbiamo di noi stessi e gli stereotipi di corpi “adatti” magri o morbidi che la società impone creano in noi vissuti conflittuali, smarrimento e possono, se intrecciati a imperativi di accettazione, creare nuove prigioni non meno pericolose da quella da cui si cerca di fuggire.



63 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti
bottom of page